LINGUAGGIO, NON PAROLE, PAUSE
LINGUAGGIO, NON PAROLE, PAUSE
“Le cose scritte non servono per un discorso; la loro forma è letteraria; sono rigide, inflessibili e non si prestano a una felice ed efficace proposta orale… Devono essere trasformate on un linguaggio più familiare, tradotte nella forma comune del parlare spontaneo; altrimenti annoieranno a morte… invece di divertire” (Mark Twain)
Mark Twain conferma la nostra tesi che tende a ridimensionare il valore dell’eloquio raffinato, riconoscendo che il linguaggio, per essere efficace, deve essere familiare e comprensibile all’interlocutore.
La capacità di espressione è stata considerata in passato il requisito fondamentale di un bravo oratore, la cui vera qualità è farsi capire ed entrare in sintonia con chi lo ascolta.
È indiscutibile che un buon linguaggio faciliti il processo di comunicazione, ma il buon eloquio da solo non basta, deve essere sostenuto da altre forti esigenze comunicative.
Il postulato sul linguaggio che vogliamo affermare dice che: il vocabolario efficace è semplice, in armonia con l’uditorio, corredato da analogie, esempi e immagini, in grado di facilitare la comprensione, ma soprattutto privilegia la sintesi a scapito del dettaglio informativo.
Parole semplici in sintonia con l’uditorio
“Pensate da uomini saggi, ma parlate come la gente comune” (Aristotele)
Come abbiamo osservato, il linguaggio efficace privilegia la semplicità più che la ricercatezza linguistica, in quanto deve essere comprensibile e armonizzarsi con il livello culturale dell’uditorio. È inutile esibire una frase inglese con perfetta pronuncia oxfordiana se esistono fondati rischi che buona parte del pubblico non sia in grado di capirla. Se proprio non possiamo fare a meno di quella frase dobbiamo avere l’accortezza di tradurla nella nostra lingua.
Lo stesso dicasi per il linguaggio tecnico-scientifico, familiare solo ai pochi addetti ai lavori. Inutile nascondere che spesso l’oratore che abusa di tecnicismi è molto motivato dal desiderio di stupire con effetti sonori speciali, più che dal desiderio di comunicare.
Questo stile appartiene alla vecchia cultura oratoria, quella di una società diversa, disomogenea sul piano culturale, dove gli eletti, possessori del sapere, erano pochi e potevano esibire le proprie conoscenze facendo sfoggio di un linguaggio incomprensibile alle masse.
Per averne una conferma pensate al modo di comunicare della classe medica con i propri pazienti. Faceva parte del modo di pensare comune della vecchia cultura oratoria la frase: “È un relatore fantastico, preparatissimo! Peccato che non sia riuscito a capire nulla!”.
Nell’ottica della comprensione linguistica anche l’utilizzo di un’espressione gergale o di una frase dialettale può essere molto efficace, sempreché esse risultino familiari a tutti i presenti.
Sintesi comunicativa
Il linguaggio efficace privilegia la sintesi comunicativa imperniata sulle informazioni essenziali a scapito del dettaglio. Per rafforzare il concetto della sintesi comunicativa abbiamo introdotto, nei nostri corsi di comunicazione, l’analogia dell’iceberg, basata sul fatto che la parte emergente dell’iceberg è circa il 7-10% (ci sono teorie diverse su questa percentuale), mentre il restante 90-93% risulta sommerso. Analogamente, la comunicazione presuppone che solo parte delle informazioni siano utilizzate, quelle essenziali alla comprensione del messaggio, emergenti, proprio come la punta dell’iceberg rispetto alla massa.
Le restanti informazioni sono solo di dettaglio e pertanto possono restare sommerse, sempreché non sia necessario farle riemergere per rispondere a una domanda, chiarire un dubbio o approfondire un punto particolare importante.
Analogie
Viene definito analogia “il rapporto di somiglianza tra due cose o due fatti”.
L’oratore efficace ricorre spesso all’uso di analogie, avendo l’avvertenza di scegliere immagini vicine al vissuto dei partecipanti e pertanto di più facile comprensione.
Così, parlando a un gruppo di studenti, si potrebbero facilmente fare delle analogie tratte dal mondo sportivo. Volendo per esempio affermare che il mondo del lavoro richiede oggi una forte flessibilità e pertanto una cultura interdisciplinare, ci si può riferire al mondo del calcio che un tempo di poteva permettere di utilizzare giocatori con una spiccata specializzazione di ruolo, mentre adesso richiede giocatori duttili, in grado di muoversi a tutto campo.
Il giovane difficilmente afferra infatti il concetto di “cultura interdisciplinare”, ma capisce al volo l’idea che un terzino moderno deve saper giocare anche a centrocampo e riuscire ad arrivare a rete.
Abbiamo osservato, nell’esperienza d’aula, come la forza comunicativa delle analogie sia tale che gli stessi partecipanti finiscono con l’usarla per comunicare tra loro. In molte aziende si parla per esempio di “prendersi una scimmia”, che significa “beccarsi un lavoro che dovrebbe spettare a un collaboratore o collega”.
Un altro esempio di analogia, divenuta linguaggio comune tra gli uomini di vendita, è quello del “giro del lattaio”, con cui si indica un venditore che pianifica le visite alla propria clientela solo su itinerari stradali, anziché sulla base delle dinamiche del proprio lavoro. Il lattaio di un tempo, quello che consegnava il latte a domicilio, aveva itinerari stradali preordinati, ed erano sempre fissi.
Un’altra analogia significativa per i supervisori responsabili di personale è quella dell’invasione dell’orticello, che sottolinea criticamente il comportamento di quei capi che invadono il lavoro dei loro collaboratori competenti e motivati (l’orticello è quindi l’area di responsabilità del collaboratore). Questi superiori, nel tentativo di produrre di più, finiscono con il calpestare le coltivazioni e disturbare il lavoro dei collaboratori.
Un bravo capo non entra nell’orticello, ma indica con chiarezza quali prodotti si attende da quella produzione. L’immagine dell’orticello si adatta dunque al concetto della gestione per obiettivi, che si contrappone alla gestione “a marcamento stretto”.
Tutte le volte che potete ricorrere a un’analogia concreta fatelo, se volete dare più forza al vostro discorso.
Esempi concreti
“Un buon esempio è il miglior modo che conosco per rendere un’idea chiara, interessante e convincente” (N.V. Peale)
L’oratore efficace rifugge dall’astratezza, perché è consapevole che il linguaggio astratto è arido e non trasmette con facilità i concetti.
Molto più utile è ricorrere spesso a esempi concreti tratti da un vissuto vicino a quello dell’uditorio.
Il brano che segue è tratto dalla presentazione a un corso di management. Con questo discorso il formatore voleva convincere i partecipanti dell’importanza della pianificazione:
<<La pianificazione è una capacità fondamentale di ogni manager>>.
<<Pianificare significa definire un obiettivo che si intende realizzare, ambizioso, realistico e misurabile ma per raggiungere questo obiettivo dobbiamo scegliere le strategie più idonee, che in sostanza rappresentano le risorse che devono essere investite. In pratica la scelta strategica indica il “come fare”. Solo dopo avere definito le strategie occorre sviluppare un accurato piano d’azione che identifichi tutti i piccoli passi da compiere per raggiungere quell’obiettivo (il “chi” fa “cosa”, e “quando”)>>.
Credo non esistano dubbi sulla correttezza di questa spiegazione sulla pianificazione, ma la domanda che dobbiamo porci è: “Cosa significa per l’uditorio? Come può un discorso così astratto e teorico sensibilizzare i partecipanti alla necessità di pianificare?”.
La stessa presentazione poteva essere trasformata in linguaggio comunicativo attraverso il ricorso parallelo a un’esemplificazione:
<<La pianificazione è una capacità fondamentale di ogni manager. Immaginiamo che il vostro obiettivo sia quello di dovere assolutamente imparare il giapponese entro i prossimi due anni. Il livello di apprendimento richiesto è quello di una buona comprensione e un colloquio di base (definizione dell’obiettivo). La prima cosa che dovete fare è definire le strategie, vale a dire l’investimento in risorse (tempo e denaro) per raggiungere questo obiettivo. Una prima strategia può essere quella di frequentare un corso base per i primi 6 mesi, una seconda strategia può essere l’acquisto di un corso online al quale dedicare un’ora al giorno…>>.
Veicolando gli stessi concetti astratti con un semplice esempio, i partecipanti saranno in grado di dare concretezza a concetti intangibili quali: obiettivo, strategia, piano d’azione. Saranno in grado di tradurre la capacità di pianificazione in linguaggio quotidiano. L’astrattezza non comunica. L’astrattezza può voler dire tutto e niente.
Siamo certi che ogni lettore dispone di propri cimeli scolastici o professionali ai quali poter fare riferimento come solidi esempi di non comunicazione.
Evocare immagini
Gli psicologi dicono che l’85% della nostra conoscenza deriva dalle impressioni visive: pensate cosa sarebbe della morale della favola “La volpe e l’uva” se fosse stata raccontata in termini astratti e concettuali!
Pensate a certe massime del tipo: “A caval donato non si guarda in bocca!” e chiedetevi che fine avrebbe fatto l’equivalente messaggio teorico: “Quando una persona riceve un regalo non deve valutarlo o esaminarne i difetti, ma accettarlo come tale!”: sicuramente non sarebbe passato da una generazione all’altra.
Linguaggio
L’ORATORE sa sacrificare il perfezionismo linguistico per privilegiare la semplicità e la sintonia.
LENTO COME UNA TARTARUGA
1. Parole semplici e appropriate, comprensibile a tutti.
2. Messaggi brevi e logici (teoria dell’iceberg).
3. Uso di analogie e aneddoti.
4. Parlare con esemplificazioni.
5. Parole capaci di evocare immagini.
Questo linguaggio, fortemente comunicativo, si chiama linguaggio immaginifico, e si riconosce dalla capacità del relatore di parlare per immagini. Il suo approccio, “immaginate che…”, “pensate a…”, è caratterizzato da una costante ricerca di agganci a cose o esperienze concrete e ben conosciute.
Parole e suoni privi di significato
“Ahmm… uhmm… lei sa… evidentemente… praticamente… diciamo…” ecc. sono suoni o espressioni, definiti comunemente “non parole”, molto diffusi sia nel parlare in pubblico che nei colloqui privati. “Non parole” che nessuno inserirebbe in un testo scritto e che sono usate del tutto inavvertitamente.
Sembra infatti che il nostro subconscio stimoli il cervello a produrre dei suoni superflui (non parole) per trovare più tempo per pensare. Probabilmente siamo spaventati dal vuoto sonoro che si crea tra una parola e l’altra, al punto che inconsapevolmente tendiamo a colmare questo vuoto con un “ponte sonoro”.
Le non parole sono spesso sgradevoli: pensate a quegli oratori, soprattutto a quelli che usano il microfono, il cui discorso è accompagnato da un sottofondo d “eehmm, uuhmm”.
Altre volte sono elemento di forte distrazione in chi ascolta: pensate a chi si innamora di un avverbio come “praticamente” o “evidentemente” e lo inserisce con cadenze regolari ogni 10-20 secondi. Alcuni partecipanti si divertono a contare queste “non parole” per valutarne la frequenza al minuto.
La terapia per liberarsi delle “non parole” passa attraverso due fasi:
1. la presa di coscienza che siamo affetti da questo inutile “ponte sonoro” tra una parola e l’altra;
2. l’esercizio per eliminare il problema, sostituendo alle “non parole” opportune pause. Ci si può allenare con l’ausilio di un registratore, ma ovviamente l’oratore che si esercita deve parlare a braccio e non leggere, perché le “non parole” si insinuano nel momento della ricerca del discorso.
Parlare troppo velocemente o troppo lentamente
Anche se la velocità di ascolto è molto superiore alla velocità di emissione delle parole, parlare troppo rapidamente non lascia tempo all’uditorio di metabolizzare il messaggio e, se necessario, di intervenire con domande. Inoltre, ed è forse il maggior difetto, si dà una sensazione di fretta e di nervosismo poco produttivi per la comunicazione.
La terapia è la stessa suggerita per le “non parole”: presa di coscienza e inserimento di pause. Potremmo anche semplicisticamente consigliare di rallentare la velocità di eloquio, ma sappiamo che è più facile introdurre l’abitudine alle pause che modificare la propria velocità.
Problema diametralmente opposto è la lentezza nel parlare, che pregiudica l’ascolto perché induce gli astanti a distrarsi con facilità: infatti la velocità di ascolto è cinque volte superiore alla velocità espressiva, e se l’oratore parla molto lentamente questo rapporto può diventare di 1 a 10. Il risultato è che chi ascolta è costretto a lunghe pause mentali durante le quali è facile distrarsi (“Visto che parli così lentamente ho tempo per pensare ai fatti miei!”)
La situazione si aggrava se alla lentezza espressiva si accompagna un tono di voce basso e monocorde: ne consegue un effetto irresistibilmente soporifero sull’uditorio.
La terapia in questo caso è molto difficile, in quanto la lentezza nel parlare si accompagna in genere alla difficoltà espositiva, alla lentezza con cui il cervello elabora le parole. Tuttavia un buon esercizio con il registratore e un’accurata preparazione possono permettere di migliorare.
Le pause
Sembra che molti oratori siano terrorizzati dal silenzio. Forse la tensione presente in un relatore che si alza in piedi di fronte a un gruppo aggrava la sensazione di vuoto sonoro. Probabilmente il subconscio invia dei messaggi di preoccupazione come: “Questo silenzio dipende solo da me! Tutti sono in silenzio ad attendere le mie parole! Forse pensano che ho un’amnesia!”. Questi possono essere ragionamenti inconsci che stanno alla base del terrore del silenzio. Si tratta degli stessi ragionamenti che ci spingono alle “non parole”, a parlare troppo velocemente, a continuare a parlare mentre scriviamo alla lavagna o mettiamo in ordine i nostri fogli. Se non superiamo questa remora psicologica perderemo uno dei più efficaci strumenti di comunicazione: la pausa.
Quando dobbiamo affermare un concetto chiave, che tutti devono comprendere e ricordare, possiamo ricorrere alla pausa, in modo da imprimere la massima forza emotiva al messaggio: “Signori, vorrei chiudere questa riunione con la certezza che un punto fondamentale è condiviso da tutti… (pausa)… quello di attuare domani ciò che abbiamo discusso”.
Il primo momento per fare una pausa è all’inizio della presentazione per ottenere il massimo ascolto: “Signori buongiorno… (pausa e contatto visivo verso coloro che non sono ancora attenti. La pausa deve continuare finché non si ottiene il pieno controllo della sala)”.
Per concludere, le pause sono indispensabili per rafforzare l’efficacia della comunicazione.
Il ricorso alle pause si presenta particolarmente utile:
• per dare più forza emotiva al messaggio: pausa messaggio chiave pausa;
• per prendere il controllo della sala: per esempio in apertura, ma anche se c’è del brusio di sottofondo;
• per ridurre il numero delle “non parole”;
• per rallentare la velocità di esposizione.