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Massimo Gallo

ISABELLA MILANI - L'ARTE DI INSEGNARE - CONSIGLI PRATICI PER GLI INSEGNANTI DI OGGI: NOI E GLI ALUNNI

     Quando entrate in classe, quando state con i bambini e con i ragazzi, ricordate che le classi sono tutte diverse e che prima di conquistare i singoli dovete conquistare il gruppo. Ogni nuova classe è una nuova sfida.

     All’inizio dell’anno è abitudine degli insegnanti scambiarsi opinioni sulle classi nuove: <<Mi sembra una bella classetta>>. La <<bella classetta>> è una classe nella quale si riesce a fare lezione senza avere grossi problemi a tenere la disciplina; nella quale ci sono diversi alunni che studiano, e stanno attenti. E se il numero di quegli alunni è alto diventa <<una buona classe>>. Ma queste <<belle classette>> capitano sempre più du rado. Oggi si dice spesso: <<Sembra una brutta classe>>. Il che significa che dalle schede degli alunni o dai test di ingresso emergono difficoltà nello studio e grossi problemi di comportamento.

     Se le classi sono tutte diverse, possono capitare anche le classi <<difficili>>, soprattutto nella Scuola dell’obbligo. Bisogna essere preparati anche a quelle. Il lavoro dell’insegnante consiste nell’insegnare a tutti gli alunni e a tutte le classi.

Le classi sono tutte diverse

     Gli allievi non sono la classe. Il rapporto con la classe viene prima del rapporto con i singoli alunni. Quando entrate in classe, quello che vi accoglie è un gruppo. Vi rivolgete a loro chiamandoli <<Ragazzi>>, appellandoli con il <<Voi>>, come se fossero tutti uguali. <<Ragazzi, fate troppa confusione>> o <<Studiate troppo poco!>>: lo dite a tutti, anche a quelli che stanno sempre zitti o studiano diligentemente. Dovete ricordarvelo, quando parlate, perché con gli alunni bisogna essere chiari, per non confonderli; e ai ragazzi non piace sentirsi accusare ingiustamente. In questo senso, le note collettive tipo <<La classe impedisce il regolare svolgimento della lezione>>, oltre a essere un’autocertificazione di incapacità, sono perfettamente inutili e sicuramente ingiuste.

     Per tutte le classi è importante il primo approccio. Sbagliare l’approccio iniziale con la classe significa sbagliare tutto. E questo è ancora più vero se la classe è difficile.

     Raccomando a tutti, soprattutto agli insegnanti giovani, di ricordare che la classe è il vostro interlocutore. È quella che dovete conquistare, prima ancora di conquistare i singoli alunni. Dovete affascinarla e soprattutto guadagnarvi la sua fiducia e il suo rispetto. Quella fiducia e quel rispetto che non dovete mai, per nessun motivo, neanche una volta, perdere. La classe non è una somma di individui, è un corpo unico. È come un grappolo d’uva. Dovete considerare il grappolo intero, non i singoli acini, che non sono uguali, non hanno la stessa perfezione di forma; alcuni sono ben maturi, altri sono ancora un po’ acerbi; altri ancora sono un po’ sciupati. Quello è il grappolo che vi è stato affidato. Dovete averne cura. Come non ci sono due grappoli perfettamente uguali, non ci sono due classi perfettamente uguali. Non è scontato, perché, se lo fosse, nessun insegnante pretenderebbe di insegnare sempre allo stesso modo. Allora diventa davvero importante capire com’è quella classe.

     Prima studiate il grappolo e solo dopo gli acini. La classe è un insieme nel quale vivono i ragazzi. Un ragazzo, in classe, si comporta in modo diverso rispetto a quando è solo con l’insegnante. Più timido, più spavaldo, più sfrontato, più sgarbato.

     In classe gli alunni interagiscono e si creano dinamiche che non ci sono quando il ragazzo si trova fuori dall’aula, in un piccolo gruppo o solo. La classe è il gruppo in cui si creano dinamiche che dipendono dall’incontro di quelle specifiche personalità e, quindi, non esiste un gruppo uguale a un altro. Una classe è il risultato dell’insieme di venticinque-trenta persone, ciascuna con la sua personalità, il suo background culturale, il suo vissuto.

     Ogni ragazzo è come un componente chimico che da solo non è pericoloso, o dannoso o esplosivo, o utile, ma combinato con altri si trasforma. E di solito è molto diverso da quello che è quando si trova a casa. Ecco perché accade molto spesso che il genitore non crede alla descrizione dei comportamenti del figlio. Secondo loro, il figlio a casa è diverso e se si comporta male la colpa è dell’insegnante o dei compagni. Oppure protesta che non è vero che il ragazzo si comporta male: è l’insegnante che ce l’ha con lui.

     Un insegnante che crede di entrare in una nuova classe come è entrato nelle classi precedenti della sua carriera scolastica parte con il piede sbagliato.

     Per saper affrontare le cose bisogna capirle. Per capirle bisogna studiare e aggiornarsi continuamente. Leggere libri sulle dinamiche di gruppo, per esempio. Studiare, per un insegnante, è indispensabile. Non bisogna mai dimenticarlo.

Gli alunni sono tutti diversi

     Le classi sono tutte diverse, sia che si tratti di Scuola primaria, o secondaria di I grado o secondaria di II grado. Cambiano i modi, ma il concetto è lo stesso: in ogni ordine di Scuola bisogna coinvolgere e interessare gli alunni in modi diversi:

  • con i bambini si può ricorrere al gioco, alle attività pratiche, a lezioni più <<teatrali>>;
  • con gli adolescenti bisogna stupirli, farli riflettere insieme con voi, e coinvolgerli in attività;
  • con i ragazzi della scuola secondaria di II grado bisogna essere interessanti, seguire la strada del ragionamento, permettere loro di sentirsi utili, rendere espliciti i motivi per cui si chiede loro di studiare ogni argomento.

     Tutte le classi sono diverse e bisogna prima di tutto saper gestire la classe nel suo insieme. Ma poi è importante considerare in altro concetto: tutti gli alunni sono diversi e un atteggiamento che va benissimo per un alunno è sbagliato per un altro. Ecco la difficoltà: parlare per la classe nel suo insieme e, contemporaneamente, per i singoli alunni, che sono tutti diversi e dovrebbero essere affrontati con strategie individualizzate.

     Come si fa? Direi che praticamente impossibile. Bisognerebbe che le classi fossero composte da dieci alunni e invece sono sempre più numerose. Accontentatevi di non fare gli errori più grossi. Se ci riuscite siete già bravi.

     Le classi devono essere formate seguendo i criteri di equità ed eterogeneità: non si possono – come qualcuno vorrebbe – riunire tutti i ragazzi <<migliori>> (che dal punto di vista scolastico significa alunni intelligenti, capaci di attenzione, che sanno seguire la lezione e intervenire al momento opportuno, che hanno capacità di rielaborazione, disponibilità a uno studio serio e costante a casa), perché in questo modo gli alunni <<bravi>> non potrebbero influenzare positivamente quelli che hanno maggiori difficoltà. E, per lo stesso motivo, non si possono mettere in una stessa classe (come genitori e perfino insegnanti vorrebbero come ovvia soluzione), tutti i ragazzi <<peggiori>> (che hanno difficoltà di apprendimento, problemi comportamentali, poca o nessuna disponibilità a stare attenti in classe e studiare a casa). I miglioramenti sarebbero scarsissimi. Nelle classi eterogenee gli alunni imparano a collaborare; in quelle omogenee (tutti alunni bravi o tutti alunni difficili) non si risolve nulla.

     Le classi dovrebbero essere il più possibile differenziate al loro interno e omogenee tra di loro, nel senso che tutte devono includere studenti di diverso livello dal punto di vista dell’apprendimento o dell’estrazione socioculturale. Solo se il gruppo è differenziato si può creare una specie di <<simulazione di società>>, dove ognuno possa accrescere le sue capacità, anche grazie all’aiuto che gli studenti si danno fra di loro, grazie a ciò che gli alunni <<bravi>> possono imparare dal vivere insieme ai ragazzi <<difficili>>, e grazie alla ricchezza di esperienze di vita, anche nell’ambito ristretto di una classe. Se una scuola forma una classe con alunni solo stranieri o solo italiani, per esempio, presenta loro un modello di società non rispondente alla realtà.

Gli alunni svantaggiati

     Gli alunni sono tutti diversi e tutti, in un modo o nell’altro, hanno qualche problema. Alcuni, però, ne hanno davvero molti.

     <<Handicap>> significa <<condizione sfavorevole, svantaggio>>. Voglio chiamare qui <<portatori di svantaggio>> tutti i bambini e i ragazzi che sono in qualche modo svantaggiati: sono figli di genitori che non possono seguirli; sono stranieri e non sanno l’italiano; hanno una menomazione fisica; hanno dei ritardi psicofisici; sono molto poveri; sono diabetici; sono obesi; sono figli di genitori depressi, o alcolisti, o tossicodipendenti, o ricchi e assenti; sono figli di genitori disonesti o violenti; hanno subìto dei traumi, o sono depressi come i genitori, o hanno attacchi di panico, per esempio.

     Il numero dei <<portatori di svantaggio>>, in Italia come nel mondo, è decisamente molto superiore a quello dei ragazzi che hanno una vita cosiddetta <<tranquilla>>, <<normale>>. E allora che cosa si deve fare? Che cosa deve fare la società degli adulti di tutti questi portatori di svantaggio? Li ignora? Li isola? Li segue e li aiuta? Si dedica solo ai pochi alunni bravi?

     C’è qualcuno che dice: i bravi avanti e i non bravi a casa. Non fatelo, soprattutto se insegnate nella Scuola dell’obbligo. Riflettete sul fatto che per i <<portatori di svantaggio>>, per chi ha <<bisogni educativi speciali>>, ma non riconosciuti ufficialmente, non c’è praticamente alcun sostegno. Nessun sostegno per i ragazzi che non conoscono la lingua, che hanno difficoltà di socializzazione, di apprendimento, che non sanno superare traumi affettivi, che hanno svantaggi socioculturali, se queste gravi condizioni non vengono riconosciute e certificate.

     E allora ecco che, non solo si ignorano i problemi dei ragazzi svantaggiati, ma purtroppo, a volte, si <<mettono>> più alunni disabili, con patologie o problemi diversi, con un solo insegnante. Così, non riesce a studiare né chi ha abilità <<normali>> o buone, né chi ha abilità <<diverse>>, né chi ha abilità scarse. Le difficoltà che sorgono in una classe nella quale vengono inseriti ragazzi con problemi particolari, e di diverso tipo, porta gli insegnanti a trascurare gli alunni disabili. Non per cattiva volontà, ma perché è impossibile fare lezione contemporaneamente ad alunni normodotati, ad alunni svantaggiati e ad alunni con <<abilità diverse>>.

     Nella Scuola dell’obbligo, soprattutto, capitano alunni con ritardi cognitivi, con turbe affettivo-relazionali, non vedenti, non udenti, iperattivi, psicotici, affetti da autismo, da dislessia ecc.: non possono seguire tutti lo stesso programma. Spesso non riusciamo a fare tutto quello che vorremmo.

     I problemi e la frustrazione, per un insegnante che lavora con coscienza, sono grandi. Del resto, insegnanti non si nasce, si diventa. E aggiungerei <<a forza di errori>>. Non dovete sentirvi in colpa se incontrate delle difficoltà e non riuscite a superarle subito. Capita a tutti, e dobbiamo accettarlo.

     Dobbiamo però anche aggiornarci continuamente. Leggere libri o articoli sui ritardi cognitivi, sulle turbe affettivo-relazionali, sui problemi degli ipovedenti, degli ipoudenti, sull’iperattività, sulle psicosi, sull’autismo, sulla dislessia.

     Leggere libri, studiare è essenziale, ma anche l’esperienza è molto importante. Incontrerete ogni anno nuovi ragazzi, affronterete problemi e li risolverete. Ma non sempre andrà bene. A volte le condizioni sono talmente difficili che non basta la buona  volontà, e neppure la preparazione. Dovete studiare ogni caso difficile che vi si presenta e, con cautela, fare dei tentativi, osservare i risultati e poi prendere delle decisioni. Un caso simile vi si presenterà una seconda volta, e poi una terza. E voi, usando l’esperienza dei casi precedenti, potrete fare sempre meglio.

Cercate di sapere che cosa pensano

     Se vi documentate, per esempio navigando sui social, saprete prima di entrare in classe che cosa i ragazzi si aspettano da voi, che cosa disapprovano, e potrete regolarvi di conseguenza. Leggerete frasi come queste: Gli insegnanti sono troppo noiosi, fanno dormire; Spiegano in modo monotono; Parlano per due ore ininterrottamente; Non ci permettono di interagire, fanno leggere il libro a voce alta; Gli insegnanti dovrebbero trovare qualche sistema per essere più coinvolgenti; Dovrebbero rendersi conto che spiegare per due ore o tre ore di seguito è assurdo; Quando i professori parlano vedo che muovono la bocca ma non capisco niente di quello che dicono; Non pensano che ai compiti in classe, alle interrogazioni, al programma e all’esame di Stato.

     Allora: prima di entrare in classe, riflettete su quello che scrivono. Decidete se hanno ragione o torto. Agite di conseguenza! E non vi demoralizzate mai!

     Non ci si chiede di compiere miracoli, ma di fare del nostro meglio.

     Pensiamoci bene: per aiutare ogni singolo studente in tutti i problemi che incontra, nella classe dovrebbero esserci solo due o tre alunni. Come possiamo pensare di aiutare ventotto ragazzi, tutti diversi, con caratteri e problemi specifici, con situazioni socioculturali diverse, nella stessa ora? Nella stessa ora possiamo fare lezione a tutti e ventotto, questo sì, fingendo che siano uguali. Possiamo dare una mano un giorno a uno un giorno all’altro. Chiamare fuori classe ora uno ora un altro e parlare dei loro problemi. Ma come possiamo riuscire ad aiutare ogni singolo alunno, tutti i giorni? Pensiamo a quanto è difficile dare una mano a uno dei nostri figli che ha dei problemi; pensiamo di metterne ventotto tutti insieme, e risulteranno chiare le difficoltà. Per aiutare gli alunni, singolarmente, bisogna capirli. Per capirli è necessario osservarli molto attentamente. Sebbene i ragazzi non siano mai uguali, possono però essere simili, e l’esperienza serve a ricordare come ci siamo comportati con un certo allievo anni prima, in una situazione difficile simile. Ci sono, insomma, degli alunni-tipo.

  • L’alunno prevenuto è uno dei più difficili. Perché se è prevenuto lo è a causa di esperienze o di idee sulle quali non avete alcuna responsabilità, per cui non potete fare riferimento a fatti che non conoscete. È quello che, anche se non vi ha mai visto prima, vi guarda già con disprezzo, o evita di guardarvi, ostenta disinteresse e fastidio. Lo incontrate alla Scuola secondaria di I grado e di II grado. Con lui bisogna evitare lo scontro e continuare ad aiutarlo senza badare al suo atteggiamento. Bisogna conquistare poco a poco la sua fiducia, mostrare per lui attenzione e disponibilità; fare in modo che alla fine cominci a sentirsi imbarazzato quando risponde in modo sgarbato.
  • Poi c’è il timido. Se lo guardate abbassa gli occhi o arrossisce; tenta in ogni modo di passare inosservato perché è terrorizzato dalla possibilità che lo costringiate a farsi notare domandandogli qualcosa. E, se lo fate, prima vi fissa e poi con rapidi movimenti degli occhi guarda a destra e a sinistra per vedere se gli altri lo guardano. Il timido deve capire che se parla non gli succede nulla. Non serve a niente rassicurarlo con le parole, bisogna farlo con i fatti. Il timido ha paura del palcoscenico, degli occhi dei compagni. Mettiamolo il più possibile davanti, in modo che, quando deve parlare, non veda gli altri. Quando è vicino alla cattedra rivolgiamoci a lui per chiedere qualcosa che non dia problemi per la risposta: una penna, che ore sono, che materia hanno all’ultima ora, che cosa c’era da studiare. Poi chiediamogli di cancellare la lavagna o di fare qualcosa che lo obblighi ad alzarsi e a camminare per l’aula. Insomma, poco per volta, cerchiamo di trovare attività brevissime e semplici che lo obblighino a esporsi, finché non acquisirà più sicurezza.
  • L’alunno demotivato, invece, si riconosce perché non sta attento e giocherella un po’ con tutto o guarda fuori dalla finestra. Tutto da solo. Deve passare il tempo. Anche questo è difficile da coinvolgere, e perciò con lui dovrete partire dall’inizio.
  • Il simpaticone si trova in tutti gli ordini di Scuola: piace anche a noi insegnanti, se non passa i limiti. Vivacizza la classe e non è un alunno difficile, se siamo in grado di tenere a bada le risate e riportare subito un certo ordine.
  • Si incontra spesso anche l’alunno che non ha alcuna autostima: crede di non valere nulla, si sente sempre inadeguato. Di solito è figlio di genitori severi che lo rimproverano molto. Bisogna trovare per lui attività che lo facciano sentire vincente, valorizzando quello che sa fare.
  • Un ragazzo che si incontra frequentemente è il tipo tranquillo che tira a campare. È il ragazzo che fa quello che può senza preoccuparsi più di tanto. Non è un ragazzo difficile. Con lui bisogna lavorare per sviluppare l’entusiasmo, la voglia di fare, l’ambizione. Bisogna ricordarsi di interpellarlo spesso, di trattarlo con grande considerazione, perché provi la piacevole sensazione di essere stimato.
  • Poi c’è l’alunno straniero: albanese, polacco, cinese, rumeno, russo, moldavo, peruviano, argentino. Ce ne sono in ogni ordine di Scuola. Gli alunni stranieri a volte sono molto motivati.

Vogliono emergere. Atre volte sono poco integrati, perché non capiscono quello che danno o dicono i compagni. Ci vuole molto impegno anche con loro. Bisogna conoscere, tra l’altro, i sistemi educativi dei genitori stranieri, il loro modo di gesticolare, le espressioni del volto, quello che considerano positivamente e quello che ritengono sconveniente. Tutto è importante. E la loro presenza in classe ci porta anche il problema di come vengono visti dai compagni e, soprattutto, dai genitori italiani dei compagni.

  • Un discorso a parte meritano gli alunni con disabilità e quelli con Disturbi Specifici dell’Apprendimento. Non si può ammettere l’ignoranza, in un insegnante. Sono alunni che hanno problemi particolari e bisogni educativi speciali: dobbiamo conoscerli. Stiamo attenti anche a come ci riferiamo a loro: nel tempo la Scuola lì ha chiamati ritardati, handicappati, portatori di handicap, invalidi, caratteriali, disabili, diversamente abili. Sarebbe più rispettoso che li chiamassimo <<alunni con disabilità>>, perché prima di essere disabili sono alunni. I termini si evolvono. Ma dobbiamo informarci, studiare, chiedere. Soprattutto per non rischiare di fare danni.

     La maggior parte delle persone crede che ciò che distingue un buon insegnante sia la sua preparazione. Non è così. Non sempre un insegnante preparato è un buon insegnante. Per esserlo, l’insegnante deve, soprattutto, saper gestire una classe e suscitare negli alunni la voglia di studiare. In assenza di questi ultimi due aspetti, la sua preparazione è quasi inutile. In fondo, è meglio un insegnante un po’ meno preparato, che sappia mantenere la disciplina, che sappia farsi amare e far amare lo studio, di un genio che non ha capacità comunicative.

     Le difficoltà maggiori, per un insegnante, sono i ragazzi difficili e quelli che non studiano.

Alunni di Scuola primaria, di Scuola secondaria di I e II grado

     Precisare che un bambino di sette anni è diverso da uno di diciassette sembra una sciocchezza. Ma non lo è. È ovvio che quello che scrivo deve essere adeguato all’età dell’alunno. Come non posso rivolgermi a un bambino di otto anni con il tono che uso con un adulto, non posso trattare un diciottenne come un bambino. È molto importante aggiornare continuamente lo studio delle caratteristiche della fascia di età alla quale ci rivolgiamo, perché oggi i ragazzi cambiano con grande velocità. Nella scuola attuale non si può più fare conto su quello che sappiamo. Quello che sapevamo all’inizio della carriera è datato; e, se siete giovani, non potete basarvi su quello che sapete dei ragazzi perché hanno quasi la vostra età: rispetto a voi e ai vostri coetanei i vostri alunni sono sicuramente già cambiati.

     Soltanto in teoria, molto spesso, disegniamo la <<situazione di partenza>> della classe, e i test d’ingresso, in realtà, poiché sono uguali per tutti (a volte sono vecchi test già somministrati in classi <<passate>> o usati da colleghi in altre scuole), non sono molto significativi. D’altra parte non solo non abbiamo le competenze che sarebbero necessarie per studiare tutti gli aspetti delle potenzialità di ogni alunno, ma non abbiamo tempo (e, sinceramente, per quello che poi ci aspetta in termini di mancanza di risorse, neanche voglia) di farlo.

     Una Scuola seria dovrebbe prevedere personale specializzato che affianchi i docenti in ingresso (per valutare le caratteristiche di ogni alunno che entra sia per le difficoltà che per le possibilità) e poi in uscita, prima dell’inserimento in un altro ordine di Scuola. Per quanto riguarda i test Invalsi, proprio perché sono uguali per tutti e non tengono conto né della provenienza geografica (con tutte le componenti linguistiche, socioculturali, educative e didattiche mentalità che comporta), né di quella familiare e socioculturale (con tutta l’influenza che ha in tutte le fasi dell’apprendimento a mio parere servono soltanto per stilare una mappa delle scuole d’Italia più virtuose (più fortunate?) o più scadenti.

     C’è anche un altro aspetto che è molto importante da considerare: la Scuola italiana – per come è strutturata e pensata – lavora sostanzialmente a compartimenti stagni. È come se ci fosse affidato un bambino piccolo, ci venisse tolto quando entra nell’adolescenza, e consegnato ad altri insegnanti che, di colpo, lo vedono <<ragazzino>>, fino a quando non diventerà un ragazzo, momento in cui verrà passato nelle mani di professori che lo guarderanno come se non fosse mai stato bambino. Bisogna considerare invece che nel ragazzo che viene affidato agli insegnanti di Scuola secondaria di II grado c’è ancora il ragazzino della Scuola secondaria di I grado, dentro il quale – come in una matrioska – c’è ancora il bambino della Scuola primaria.

     Rendersene conto significa essere disposti a comprendere le difficoltà dell’alunno e quelle degli insegnanti.

     Per <<capire>> bisogna <<conoscere>>. Per capire il ragazzo bisogna conoscere anche il ragazzino e il bambino che è stato. O bisognerebbe. Ma non è importante il fatto di riuscire effettivamente a ottenere tutte le informazioni necessarie a studiare il suo caso, quanto il fatto che ogni insegnante deve essere disponibile a vedere al di là di quello che il ragazzo appare. Non è un fatto automatico, bisogna volerlo.

     Tutti noi dovremmo essere preparati sulla psicologia dell’età evolutiva, sulle fasi dell’apprendimento, sull’interazione fra patrimonio genetico e ambiente, sull’importanza dell’ambiente, delle figure adulte, e su tutto quello che può influenzare – positivamente e negativamente – la vita di un bambino, che poi diventerà adolescente e infine adulto.

     La conoscenza di tutto quello che riguarda, in generale, i bambini e i ragazzi ci permette di paragonare ogni caso particolare, e renderci conto delle sue eventuali carenze o delle sue maggiori potenzialità. Se un bambino ha maggiori difficoltà nella lettura rispetto alla maggioranza dei bambini di quella età, e a noi non viene neppure in mente che possa trattarsi di dislessia, non solo non potremo aiutarlo, ma, molto probabilmente, lo rimprovereremo; o, al contrario, se lo definiamo <<dislessico>> anche se non lo è, non lo esorteremo a impegnarsi, favorendo così la sua scarsa motivazione.

     Se non sappiamo sospettare nell’atteggiamento aggressivo di un ragazzo la presenza di problemi (magari di tossicodipendenza, di esperienza di abusi subìt, di degrado sociale), ma – semplicemente – lo considereremo <<un gran maleducato>>, continueremo a ignorare le sue grida di aiuto.

Il rapporto insegnante-alunno

     Il rapporto insegnante-alunno non è basato sul passaggio a senso unico dell’alto al basso; non si travasa: si offre e si chiede, si porge e si riceve.

     Dopo aver stabilito un rapporto con il gruppo classe, dovete cercare di stabilire un rapporto con ogni alunno. Ve lo dico già: non ci riuscirete. Non con tutti: sono troppi, non c’è tempo, non ci sono occasioni in cui potete stare soli con un alunno per conoscerlo meglio. Ma dovete tentare di farlo. Soprattutto con i bambini e i ragazzi più difficili, più bisognosi del vostro aiuto.

     Ogni volta che entrate in classe, anche soltanto per parlare con un collega, salutateli. Sono persone, non mobili e suppellettili. Date un’occhiata in giro – da destra a sinistra e viceversa – indugiando un po’ sul viso di qualche alunno. Mostrerete loro che vi interessano. Dite qualcosa a qualche alunno, come per esempio <<Ti sei tagliato i capelli?>>, se vi sembra che lo abbia fatto. Basta che vedano che vi interessate. Se vi sembra che ci sia un’alunna che ha uno sguardo diverso dal solito, informatevi se sta bene (<<Come stai, Ballabio? Hai bisogno di qualcosa?>>).

     Se li osserverete cercando di guardare al di là di quello che si vede a uno sguardo superficiale, vi accorgerete di tante cose: uno è molto raffreddato, un altro si è tagliato i capelli, un altro ancora guarda fuori dalla finestra, uno ha sonno, uno è pallido. Mostrate a tutti che vi accorgete che esistono come persone, prima che come alunni: <<Donizzetti, sei ben raffreddato oggi! Se non ce la fai a stare a Scuola, vai a casa e mettiti a letto>>; <<Che cos’hai, Pagani? Ti senti male?>>. Se non sono cose gravi, potete anche scherzarci un po’ su. Qualunque sia la loro età.

     Se venite a conoscenza del fatto che un alunno ha un problema personale, chiamatelo da parte e ditegli qualcosa come: <<Sono un po’ preoccupato/a, perché sembri pensieroso… Va tutto bene? È solo un’impressione, o c’è qualcosa che non va?>> Poi, senza attendere la risposta, aggiungete: <<Non voglio essere indiscreto/a. Sappi solo che, se hai bisogno di aiuto, io sono qui e puoi tranquillamente chiedermelo. Se posso fare qualcosa, ricorda che io sono il/la tuo/a insegnante, puoi rivolgerti a ne>>. Siate espliciti: <<Mi interessa quello che ti capita, ricordatelo>>.

     Scherzate un po’ con loro. Bisogna essere capaci, è ovvio. Ci sono persone che non sanno scherzare neppure nella vita quotidiana. Figuriamoci in classe, dove c’è la pausa di apparire ridicoli. Ma, se ci riuscite, la capacità di scherzare dell’insegnante è molto apprezzata: <<Lombardi, sono venuti proprio bene, i capelli! Te li sei tagliati da solo?>>; <<Ugolini, quando sei stufo di quello che stai guardando fuori dalla finestra, dimmelo che ti faccio cambiare paesaggio>>; <<Shhhhh! Ragazzi, stiamo zitti che altrimenti Bianchi si sveglia>>; <<O Bettarini, ma come mai sei così pallido? Siamo già ad Halloween?>>.

     Dovete scherzare in modo rispettoso, sorridendo con aria d’intesa, e vi accorgerete se siete riusciti a creare una certa corrente di simpatia, osservando l’espressione dell’interessato: se sorride con voi, siete sulla buona strada. Se non sorride, avere sbagliato tono ed è meglio che cerchiate di riparare in qualche modo.

     Non si aspettano, da un insegnante, che segua i comici che vanno per la maggiore fra i ragazzi. Stupiteli. Guardateli anche voi e cercatene uno che vi piaccia. Usate il tormentone del programma del momento per richiamarli quando sono distratti o come battuta, quando non sapete come rispondere a un loro intervento.

     Non parlate sempre come parla un insegnante molto professionale. Scherzate un po’, via! Divertitevi anche voi! Naturalmente, dovete trovare il momento opportuno. E dovete permettere anche qualche piccola battuta da parte loro: se siete andati voi dal parrucchiere, o se avete un giubbotto nuovo, può darsi che uno di lorovu dica: <<Come sta bene, professore/essa>> o <<Bel giubbotto nuovo, professore!/essa!>> tanto per prendervi un po’ in giro (come avete voi con loro); voi dovete rispondere qualcosa di scherzoso, come: <<Ci credo! Mi ha aggiustato e restaurato per otto ore>>; <<Ti piace? È di pelle di alunno>>. A voi la fantasia. Se la frase scherzosa passa I limiti, dovete dirlo: <<Eh, no! So che non volevi offendere, ma scherzare è un’arte e questa volta non ti è riuscito. Questa battuta si è spinta troppo oltre>>. E spiegate perché. Devono imparare anche a fare battute senza offendere.

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